I bambini, la bua, l’intercultura

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Questa foto è stata scattata a Madrid in un campetto di calcio improvvisato liberamente da alcuni ragazzini vogliosi di giocare. Ci trovavamo nella piazza antistante al Museo Reina Sofia, non proprio un centro di aggregazione delle frange popolari della città, con il suo miscuglio di avanguardia novecentesca e tecnologia avanzata. Eppure questa foto, insieme alle scritte contro la polizia a Lavapies,  l’ho tenuta nella mia memoria più di tutte le solite attrazioni da viaggiatore, costretto a forza dalle guide a diventar turista.

L’immagine dei ragazzi che corrono incontro ad un pallone, apparentemente stranieri, apparentemente così distanti dal contesto in cui scorazzano. Mi ricordano i ragazzini palermitani del Capo o di corso Finocchiaro Aprile, che tutti i pomeriggi, sperando che non piova, si ritrovano lì, sui mattoni freddi e duri della piazza post-moderna del Tribunale di Palermo. Figli del quartiere popolare, di genitori che probabilmente vendono frutta e verdura, puliscono scale o con qualche parente con problemi di criminalità.

La giovenezza si prende gli spazi che vuole senza chiedere il permesso a nessuno  e si organizza spesso con strumenti di fortuna e di poco valore per il mondo degli adulti. Pensate ai pezzi di legno ritrovati nella spazzatura per creare due porte di un fantasioso campo di calcio. L’adolescenza, invece, inizia a conoscere il significato della differenza. E le cose cambiano. Attraverso i confronti con l’altro ogni giovane ragazzo fonderà la propria identità e i meccanismi di inclusione ed esclusione lo porteranno ad essere se stesso.

Mi hanno raccontato che i bambini non notano il diverso colore della pelle del proprio compagno di banco, che se fossero ascoltati per bene ti insegnerebbero dei valori fondamentali con i loro precetti naturali e ancora non mutati dalla cultura dominante. Ecco perché quando vediamo dei bambini correre dietro ad un pallone ci sembra così strano. O forse vorremmo essere soltanto al loro posto, almeno per qualche ora, per ricordarci chi eravamo prima di iniziare la scuola, come era formativo e doloroso sporcarsi le ginocchia e farsi continuamente la “bua”, con la mamma che urlava ogni volta che tornavi dalla “guerra” pomeridiana.

Ed è forse con i bambini che si possono iniziare le pratiche di intercultura che le nostre società lanciano ipocritamente dai loro arruginiti megafoni e che difficilmente riescono ad attuare perchè colme di ideologie che le rendono lente e macchinose.

Ogni volta che guardo questa foto torno bambino e mi emoziono un po’. E torno con la mente ai pomeriggi assolati quando le strade erano battute più che asfaltate e le macchinine erano le nostre uniche carte di identià.

E mi facevo male realmente, da farlo vedere alla mia mamma.

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