Noi, tragici Fantozzi

E se vi dicessi che siamo tutti dei Fantozzi senza speranza?
Fantozzi è uno di quei personaggi che negli anni abbiamo imparato ad amare, a riderne di risate dolci-amare,  ma soprattutto a cui abbiamo cercato di assomigliare il meno possibile, perché ammettere di essere dei Fantozzi, diciamocelo, è come alzare bandiera bianca!
In realtà la maschera tragicomica del personaggio nato dalla penna (e magistralmente interpretato sullo schermo) di Paolo Villaggio (Fantozzi e il secondo tragico libro di Fantozzi) con cui mai oseremmo identificarci, inevitabilmente ci rappresenta e ci raffigura. È un po’ come trovarci davanti a uno specchio e sentire un motivetto nelle orecchie: “Sveglia e caffè, barba e bidè…”. Quanti di noi non hanno visto almeno una volta un film di Fantozzi, o non ne hanno imitato la voce goffa, dimessa, da sfigato patentato? Quanti davanti a un compito in classe particolarmente ostico non hanno esclamato: “Mi scuuuusi, mi si sono intrecciati i diti!”, parafrasando la famosa battuta che esclama lo sfigato ragioniere di fronte al supermegagalattico direttore? 
Lo abbiamo stra-imitato, forse nel tentativo di esorcizzarne il potere sfigante, ci siamo ingobbiti, abbiamo uscito la lingua com’era solito fare il nostro ragioniere, o abbiamo esclamato, durante una giornata particolarmente infausta, “Oggi ho la nuvola di Fantozzi che mi segue!”.
Fantozzi e il corollario di personaggi emblematici che si porta appresso, ci appartiene più di quanto noi pensiamo, inutile lottare contro questa realtà. Ecco perché, a distanza di 40 anni dall’uscita di Fantozzi, i film della saga continuano a riscuotere un successo senza precedenti, tanto da spingere le case di distribuzione a ridarlo al cinema in versione restaurata. E tutti a vederlo, a riderne e a citarne le battute.
Perché avviene questo?
Questa breve fenomenologia di Fantozzi forse ci spiegherà perché amiamo e odiamo tanto un personaggio come Fantozzi: sfigato, dimesso, senza spina dorsale, sottomesso e sottoposto per antonomasia, ma anche capace di atti “eroici” e di una disperato bisogno di emergere dallo squallore e dalla mediocrità che lo circonda, senza mai davvero riuscirci. L’universo fantozziano è come un olimpo urbano dove dei, semidei, esseri umani, esseri inferiori e sotterranei (gli impiegati), intrecciano relazioni di varia natura, dove superiori e subalterni si incontrano e si scontrano in una lotta sociale che coinvolge tutti i personaggi della saga, specialmente, neanche a farlo apposta, il nostro caro ragioniere, che dentro di sé cova rabbie represse ma, ahimè, è costretto a sottomettersi senza soluzione di continuità: proprio per la sua natura cristologica e a tratti kafkiana, egli deve subire vari martiri prima di arrivare all’ascesi finale, che nel mondo fantozziano è LA PROMOZIONE che non avverrà mai, come nella mitica scena della statua della madre ancora viva del direttore posta all’ingresso, che gli impiegati sono costretti a baciare e a idolatrare e su cui Fantozzi inciampa dando vita a una sequela di improperi …che termina con il lucidare la stessa non appena entra in scena Cattelloni, il megadirettore.

1423121762-fantozziQuella di Fantozzi verso i suoi superiori è una dipendenza psicologica a cui nessun impiegato, neanche quello più figo e furbo, passa indenne. È un mondo fatto di Megadirettori e sottoposti. Di dei ed esseri sotterranei.
Quanti di noi (i pochi fortunati che lavorano, bisogna dirlo) devono compiacere i propri superiori? Se da un lato la tendenza è dimostrare di essere capaci, dall’altro far vincere il capo o, passatemi il termine, leccargli il culo, è l’unica mossa possibile per mantenere il posto e avere delle gratificazioni. “Fare buon viso a cattivo gioco”, non si dice cosi? Vorreste farmi credere che a voi non è mai successo?
La scena del biliardo è emblematica: Il mega direttore sfida Fantozzi credendolo una vera pippa, invece il povero Fantozzi, cavolo, era bravo, si era allenato, aveva fatto persino un corso in biliardo! Ma ahimè è costretto a subire!!! Deve perdere per compiacere il megadirettore, la claque è tutta per il capo, è tutto un coro di “Merdaccia!”, la madre sul trono fomenta il pubblico, poi Fantozzi guarda la moglie Pina, la dolce e anche lei dimessa Pina, che come una mater dolorosa lo supplica di subire: “Subisci, Ugo, subisci!”. Ma Ugo non ci sta e lo batte a biliardo. Da lì la rivolta! Fantozzi, addirittura, porta via la madre e la rinchiude dentro una cabina.
Altra scena famosissima in cui inconsapevolmente Fantozzi si riscatta è la scena della Corazzata Kotiomkin. Tra le follie del radicalchicchismo c’è infatti quella di usare la cultura come un vero e proprio strumento vessatorio: era uso negli anni sessanta tormentare i propri dipendenti con retrospettive del cinema espressionista tedesco, con conseguente interrogazione post-visione. Si sa, in certi ambienti, la cultura non nutre, viene solo usata come arma violenta verso chi non sa, non conosce, per deriderlo, denigrarlo e umiliarlo. A quante conversazioni assolutamente vuote abbiamo dovuto assistere? Quanti nomi impronunciabili, pur di dimostrare che sappiamo, che non siamo degli ignoranti peracottari? Il nostro Fantozzi risponde bene, aveva studiato, ma cede alla tentazione con sprezzo del pericolo ed eccezionale coraggio, di sparare merda sulla Corazzata Kotiomkin (chiaro riferimento alla Corazzata Potemkin), definendola “una cagata pazzesca!”. Seguono 90 minuti di applausi e la rivolta dei dipendenti che costringeranno il professore a guardare un film di bassa lega, in camicia di forza e in ginocchio sui ceci. Ma egli che si vendicherà inscenando la riproduzione della corazzata e dando a Fantozzi il ruolo più umiliante, quello del poppante dentro la carrozzina che cade dalle scale, come nella famosa scena.

Ora… Siete ancora convinti di non essere dei Fantozzi? Si? Non li ricordate i tour culturali aziendali, retaggio degli anni settanta, che di culturale non avevano nulla se non il CUL…? Chissà come mai la maggior parte di questi tour avvenivano nei paesi dell’est, dove si sa, le donne sono più disponibili.
L’epopea Fantozziana non si sottrae a questa “moda” e in un episodio in particolare incarna perfettamente questa trasgressione aziendale di andare a spendere i propri soldi, sudati soldi da impiegati, nei night club. Qui s’inserisce un personaggio, anch’esso archetipico: quello del geometra Galboni, un viveur, una sorta di aristocratico decaduto, un seduttore da ufficio che aspira a essere un uomo di mondo immerso in un esotismo fittizio; Galboni fa credere agli ignari colleghi con i quali si accompagna, non a caso Filini e Fantozzi, che passeranno una serata tutta “sesso e baldoria” con donne dell’alta società… che altro non sono che prostitute. Non contento, usurpa il loro budget di cinquantaduemila lire faticosamente messo da parte per una botta e via “perché le mie vogliono essere pagate in anticipo”, lasciando così a bocca asciutta i due sfigatoni, costretti a tornarsene a casa senza aver consumato ma in compagnia di una bottiglia di stock 84 per festeggiare la botta di vita …mai consumata.
Vi è venuto il magone eh? Ma vorreste dirmi che nessuno di voi si è mai accompagnato con il figo di turno per rimediare gnocche? Perché in tutta la saga fantozziana è assodato un fatto: bisogna a tutti i costi apparire per quello che non si è. L’apparenza è l’imperativo cardine di impiegati e superiori. Bisogna dimostrare che si è colti, che si conosce la gente giusta, che si è soci del club più alla moda. Bisogna ostentare, ostentare fino allo sfinimento.
L’Incompatibilità fra i due mondi, i ricchi e gli arricchiti, si manifesta nell’episodio della polenta: la festa a Cortina organizzata dalla contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare, in cui il geometra Galboni finge di conoscere tutti (e in realtà non lo conosce nessuno!) e dove Fantozzi finisce nella polenta e viene servito a tavola come una salsiccia sacrificale sull’altare degli Dei,  espondendosi al pubblico lubridio: tutti lo deridono e se lo mangiano.

Anche nel mondo moderno, gli ostentatori sono più numerosi dei capelli di Berlusconi; i vari Giangi, vestiti da dandy, si aggirano per locali esclamando: “Carissimo, ciao…! Quanto tempo!”, e magari non sanno neanche con chi stanno parlando. Ne vedo tutti i giorni: ostentatori di professione.

Credo che potrei andare avanti all’infinito, perché gli anfratti dell’universo fantozziano sono innumerevoli, come labirinti senza uscita, dove prima o poi finiamo dentro, senza quasi volerlo. Ci scivoliamo dentro silenziosamente, perché le pareti della società che ci obbliga a emergere, a sottomerterci e a ostentare, tutto allo stesso tempo, sono ben oliate ed è quasi impossibile sfuggirvi e noi siamo tutti dei Fantozzi senza speranza, delle Cernie della Findus pronte a finire nel banco surgelati.

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