Zeta Lab: l’importanza di “essere là dove le cose accadono”

#7

ZETA RETICOLI ON MY MIND

Il greco antico è una lingua bellissima. Chi ha frequentato il liceo classico probabilmente ha provato un’avversione data dalla saturazione da eccesso di compiti in classe, ma sa che ogni parola in greco ha un significato preciso, denso di sfumature, sfaccettato, polisemico, ma preciso. Un greco sa bene che “le parole sono importanti”, prima ancora di Nanni Moretti. “Xenofobia” è una parola composta, dal greco, e significa “paura” (phòbos) “del diverso” (xènos). La utilizziamo per indicare tutta quella gamma di convinzioni e meccanismi psicologici che ci portano a diffidare, allontanarci, temere, provare indifferenza, o repulsione nei confronti di cose e persone diverse da noi. La diversità è un concetto così vasto che è difficile inquadrare le categorie di persone che, proprio perché diverse, ci fanno paura. Il greco antico, però, in questo è abbastanza chiaro, lo xenos è colui che viene da fuori, quindi lo straniero, oppure l’ospite. Tanto che la xenia è quell’insieme di riti sociali che riguardano l’ospitalità, concetto verso il quale i greci erano piuttosto sensibili, tanto che è inimmaginabile un uomo impaurito da un altro uomo che bussa alla sua porta chiedendo ospitalità. Insomma neanche i peggior greco, neanche Tersite il vile, avrebbe rifiutato un ospite. Della cultura della Grecia Antica abbiamo perso molto, e acquistato molto. L’iniziazione sessuale non avviene più tramite pederastia, le donne hanno accesso all’istruzione quasi ovunque, le divinità hanno subito un processo di sintesi (Uno per tutti, che è anche più semplice), la democrazia è una buona scusa per intraprendere un mestiere in cui vieni pagato per fingere di litigare col tuo avversario, e lo straniero fa paura. La paura non capisce la diversità, non la accetta. E quindi ci fa paura andare in un Paese di cui non conosciamo la lingua, o le usanze, ci fanno paura i matti, perché sono imprevedibili rispetto al nostro concetto di prevedibilità, ci fanno paura i corpi anomali, diversi dallo standard dei nostri corpi, e gli artisti, i temporali, le deviazioni, i contrattempi, i gay, le lesbiche, e i trans, i musicisti, e gli assassini, gli uomini se siamo donne, e le donne se siamo uomini, i bambini, gli anziani, i musulmani, i buddisti, e i pinguini, gli attori di teatro, i barboni, l’improvvisazione, la novità, l’apertura, il cambiamento. Ci fanno tremare le mutande. La paura parla, anche, e di solito dice cose di questo genere: “Lo straniero viene qui sfidando la legalità, si prende il nostro spazio, ci ruba le donne, il lavoro, la casa, la tranquillità, ci ruba tutto. Lo straniero è l’uomo nero, di nome e di fatto. È cattivo, puzza, non sa parlare, è ignorante, non sa leggere e scrivere, è clandestino, è un infame, è un ladro, è un sovversivo, è un delinquente. Non ha cultura, è un animale.” La paura non si rende conto che la legalità è importante, ma salvare la pelle di più. Che il mondo non ha confini, e che siamo tutti clandestini. Che spesso gli immigrati fanno quei lavori che un autoctono non farebbe, pur essendo meno specializzato e acculturato dell’immigrato. Che la demografia dei Paesi in via di sviluppo è in agonia, e la migrazione è l’unica risorsa di lavoratori giovani, e in salute. Che neanche io, in un Paese arabo, saprei parlare, leggere e scrivere. Che i migranti che diventano clandestini spesso vengono assoldati dal sistema malavitoso locale, vengono costretti a lavori illegali, oltre che umili, da disonesti cittadini made in Italy. Che la cultura è un concetto relativo. Che quello che a noi sembra bello, avanzato, ricco, desiderabile, non lo è per il resto del mondo. Che quando ci vantiamo di fare la raccolta differenziata, siamo mille anni indietro rispetto alle tribù del SudAmerica che vivono senza produrre rifiuti. Che Dio o Allah è la stessa cosa, come uomo e man e anèr sono la medesima cosa. Ma la paura non pensa, non capisce, non ricorda, non riconosce. La paura sputa sentenze, e lancia sassi, e accusa, e uccide. E allora capita che allo Zeta Lab uno dei ragazzi sudanesi rifugiati politici mi racconti un aneddoto significativo. È a un semaforo, sulle strisce pedonali, passa e non si accorge che è rosso. Un automobilista si ferma, e gli urla “Animale, è rosso!”. Lui si ferma e con molta calma risponde: “Animale ci sarai tu, che per fermarti hai bisogno del semaforo. Da me le macchine si fermano, se vedono un pedone.”

Preso con l’ultimo invito di un progetto
Che si presenta nel nome della verità
You know falling in illusion
Catturati nel sonno della nostra età
Un messaggio ripete che il mio posto è qui
Mostra tutti i vantaggi e le comodità
Rag-doll dimmi se ci sei anche tu
In un lago di sangue detto libertà
(Meganoidi – Zeta Reticoli)

3 thoughts on “Zeta Lab: l’importanza di “essere là dove le cose accadono”

  1. Davvero molto intenso e ispirato questo articolo.
    In quanto grecista alle prime armi, mi permetto solo di aggiungere che ci sarebbe da discutere su quelle categorie della cultura greca che hai posto in relazione con l’oggi. Le si dovrebbe scandagliare a fondo, non perché le parole stesse siano polisemiche (è il Rocci che s’inventò sta polisemia per complicarci la vita, vedi le cinque-sei pagine dedicate a quella piccola sillaba di omega-sigma), ma semplicemente perché alcune parole non avevano in sé il valore che oggi gli si affida.
    E mi riferisco al termine “democrazia”, perché probabilmente un greco non avrebbe compreso il tuo contrapporlo a “buona scusa per intraprendere un mestiere in cui vieni pagato per fingere di litigare col tuo avversario”. I due concetti sono distinti, è vero, ma l’uno non è un valore, né l’altro un disvalore. Democrazia è nella cultura greca una forma costituzionale degenerata in cui il popolo si governa e in cui tutto è lecito. Chiunque (esclusi schiavi, stranieri, donne, giovani) si svegliava e proponeva leggi. Fu un chiaro fallimento, storico ed esistenziale: lo capirono Platone e Aristotele che sperimentarono questo regime-vucciria in prima persona. Non funzionò in una piccola città come Atene, figuriamoci oggi in una nazione già di suo “vucciriota” come l’Italia. La democrazia è un non-senso. Peraltro gli stranieri (gli xenoi) erano esclusi da tutto, nessun diritto era previsto per loro, barbari per l’appunto (balbuzienti all’udito), neri oggi (alla vista). La democrazia greca non era un valore a cui dovremmo aspirare oggi, era un caos, un’età di guerre continue, che rischiava di sfociare spesso in tirannide: insomma, esattamente come oggi, con Re Silvio.
    Allora, se c’è un valore che possiamo trarre da questa remota cultura greca che non ci appartiene affatto e che ci è stata imposta dalla Germania del 1800 o da una riforma scolastica, è il senso di POLITICA: polis era Atene, politeia era l’astratto modo di fare comunità. E voi che eravate allo Zeta Lab questo avete fatto, e vi faccio i miei complimenti sinceri: avete fatto POLITICA, nell’unico senso greco del termine, cioè il CORAGGIO DI AGIRE (in cui azione e linguaggio sono inscindibili), il CORAGGIO di MOSTRARE un POTENZIALE nella SFERA dell’INTERSOGGETTIVITA’.

  2. Salvo, la tua analisi è molto profonda, e ti ringrazio, perchè è un commento molto serio, e mi piace quello che hai scritto.
    Quella frase in cui metto a paragone aspetti della cultura greca e del mondo attuale, è molto ironica, nel senso che è volutamente un paragone superficiale e veloce, teso più a sorridere (amaramente) delle cose che non vanno bene qui, e di quelle usanze un po’ strane del mondo classico (vedi la pederastia, che per noi è un reato abominevole, e lì era un rito sociale di iniziazione.)

    Sorrido leggendo “avete fatto politica”. Per una volta suona come un complimento e non come un insulto :)

    Grazie ancora (e il Rocci devasta.)

    • Anche a me è piaciuto il tuo modo di parlare e i paragoni ironici che hai fatto. Inutile dire che mi trovo d’accordo su tutto… e soprattutto su questo pezzo:
      “La paura non si rende conto che la legalità è importante, ma salvare la pelle di più. Che il mondo non ha confini, e che siamo tutti clandestini. Che spesso gli immigrati fanno quei lavori che un autoctono non farebbe, pur essendo meno specializzato e acculturato dell’immigrato.”
      ma volendo fare l’avvocato del diavolo (e in questo caso il diavolo è la paura che dice “mi rubano il lavoro”) in effetti è vero che gli autoctoni non vogliono fare i lavori che gli immigrati (e ancora di più quelli clandestini) si accollano di fare… però questi lavori sono IN NERO, MALPAGATI, e in tutta INSICUREZZA. E’ un compromesso che DEVE essere inaccettabile per tutti (altrimenti i lavoratori giocando al “ribasso” si accolleranno sempre di essere sfruttati e di morire sul lavoro). Purtroppo chi vive nella clandestinità, ha vissuto per tutta la vita di espedienti in un paese dove non esistono sindacati, norme sulla sicurezza sul posto di lavoro e pensione si accontenta di qualcosa di meglio della situazione che troverebbe nel suo paese.

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