È un sabato scoglionato come un altro, il terzo da quando sono tornato a vivere in città; da quando ho abbandonato la provincia con tutti i pro, i contro, gli stereotipi, i “Sì, ma si sta bene – Eh ma la benzina, la manutenzione…” E-mi-fermo-altrimenti-non-si-finisce-giuro. In più ho la faccia da depresso che mia moglie odia e le scatole per casa che sghignazzano. Giuro, superata la terza settimana dal trasloco lo fanno veramente!
«Usciamo a prendere un gelato!»
Guardo il mio posto auto, gli alberi condominiali curati. Mi giro un attimo a guardare mia figlia, piccola ansia da separazione. Ridò un altro sguardo agli alberi: ci sono ancora, questi non sono ancora stati bruciati.
Depressione post-incendi. Sorriso di circostanza verso mia moglie. Inchino. Lavaggio ascelle, faccia, denti, bidè (massì, facciamolo girare ‘sto contatore… è pure nuovo!), vestiti puliti, scarpe nuove da ventinove-e-novanta, litigata con lo specchio.
«Fai sempre tardi tu… Le bambine sono pronte!»
«Ok! Andiamo… La bambina spannolizzata da poco ha fatto pipì?»
«Sì, papà… ho fatto pure la cacca grande grande…»
«…Ottimo, andiamo»
Saliamo in auto: autoradio, centro storico, Gay Pride.
«Papà, cos’è questa musica così forte?»
Commenti sparsi: Ciao! Anche tu qui? – Come? No, no, io sono solo di passaggio… – Ero sicuro di trovarti qui… – Eh, ma mica sono gay io… No, no… – Marco, sei un grande! Addirittura con tutta la famiglia!
Addirittura? Ma perché?
Via Magliocco. Gelato. Panchina.
Guardo le mie figlie, cresciute in un paese, fare affermazioni strane: tipo che Palermo è sporca, ci sono troppi gabbiani, e “persone che dormono a terra”, troppe sirene e zero tortore.
«Papà, le tortore non le sento qui. Perché?»
Faccio il simpatico. «Tra i columbidi è quello che meno fraternizza con l’uomo, infatti vive ai margini della città».
«Mm… Che significa?»
«Sono schizzinose, un po’ provinciali, amano la tranquillità… Ti mancano?»
«Un po’ sì…»
Pure a me, ma essere qui non ha prezzo. Vuoi mettere? Il gelato all’ombra del Teatro Massimo, la passeggiata di fronte al bar (chiuso) dove Tomasi di Lampedusa veniva a prendere il tè; le basole che mi hanno visto correre e crescere a due passi dal Capo. La gente, i colori, la storia: il mio umore s’impenna, riesce a toccare quasi i massimi storici del 2016, quando, all’improvviso, arriva lui: il mendicante che ti chiede l’elemosina.
Il ragazzo tiene in braccio una bambina che al massimo avrà due anni, sbattendoti in faccia, alzandole e abbassandole il vestitino, il fatto che la figlia non porti il pannolino. Mi altero.
«Non è giusto quello che stai facendo!»
Lui insiste. 1 euro/50 centesimi per tornare a leccare in pace il gelato senza sensi di colpa: gli strapperei la bambina dalle mani. Cerco di fargli capire che la povertà ha anche una sua dignità… che questo è sfruttamento, mancanza di rispetto. Lui resta muto, ma allo stesso tempo riesce a farmi sentire una merda, perché probabilmente non sono schifato per il suo atteggiamento, ma provo vergogna per il gelato che tengo in mano, per i vestiti puliti, per la figura da stronzo che faccio davanti alle mie figlie, per il viso di quella bambina che mi accompagnerà per tutta la giornata. Forse è così, o forse sono solo stato preso alla sprovvista.
Cos’è più semplice? Non voler guardare tanto degrado o condannare certi atteggiamenti? Sono io che faccio schifo? Mi confronto con mia moglie. Conferma il mio pensiero mentre una senzatetto si sciacqua la faccia nell’acqua torbida della fontana sotto i profili marmorei di una banca.
«Papààà, la fontana! Ci sono i pesci?»
Guardo le mie figlie stupite per una fontana sporca e, di nuovo, il morale crolla: minimi storici.
«Torniamo a casa».
Forse la provincia, quella piccola e familiare, è proprio un pezzo di quel mondo che le nostre coscienze preferiscono farcire di felicità mentre corri in autostrada e ti dici che tutto sommato non si sta poi così male; che c’è ancora speranza anche se si è pagati da una multinazionale, acquistando scarpe a basso costo prodotte dove i bambini, i pannolini, non li usano neanche. Ma dai sì, non è colpa mia… Forse esco poco, forse sono troppo bacchettone.
Ma sì, dai, in provincia si sta meglio, magari il marcio c’è, ma si riesce a nascondere sotto piccoli tappeti, non ti colpisce in faccia con le ginocchiate davanti alle tue figlie… Non è come nelle città in cui devi inventarti le storie, le scuse, per un mondo di merda.
Veranda. Piccolo giardino condominiale, palazzoni, posti auto e nemmeno una tortora con cui lamentarsi.
mi ha colpito e mi tocca profondamente, perchè anch’io la provo, la sensazione di impotenza davanti a determinate situazioni, tipo la persona che ti chiede l’elemosina, e il non saper che fare… aiutare, aiutare solo quella persona, aiutare tutti, aiutare chi?
e Marco, ovviamente, è il pittore che è in grado di illustrarci questo spaccato… complimenti!
Caro Marco, non mi stanco di commentarti.
Mi piace leggerti, mi piace la poesia tragica e tragicomica, a volte anche noir quando sprofondi, e toccante in ogni caso. Mi piace, sì. Ma poi penso alla persona che tocca i tastini del pc formando le parole. E inizio a dirti che la parola più abusata dell’anno è “resilienza”. Parola abusata, sì. Ma di cui forse, in piccole dosi e al momento giusto, possiamo abusare per brevi periodi.
Bella Marco!!