Quando un matto mi chiese di diventare la sua ragazza

I malati di mente sono scivolosi come il pantano, come le sabbie mobili. Ci si muore dentro. E la malattia mentale è un mulinello che ti prende e tante volte non ti rende la vita. […] Ho una fame chiara, violenta, una voglia di amore sugli occhi. Tutti noi siamo violenti perché siamo incatenati. […] Ogni giorno cerco il filo della ragione, ma il filo non esiste, o mi ci sono ingrovigliata dentro. (A. Merini)

Guido
Guido fu il primo ad accogliermi in casa famiglia; lo fece con un silenzio strano, infantile e timido.
Dall’altro lato della barricata, la prima cosa che mi dissero è di fare attenzione, perché aveva un’epatite C galoppante che gli psicofarmaci non facevano che aggravare; ma si doveva scegliere tra la morte mentale e quella fisica, e per lui si optò per la seconda: si scelse di farlo vivere di meno, ma meglio.
Pochi giorni dopo il mio arrivo, Guido cominciò a chiedermi di diventare la sua ragazza. Aveva pochi denti e fumava, ma tutto quello che diceva lo diceva dolcemente, parlando con una lingua un po’ di pezza, forse per la mancanza degli incisivi, forse per l’effetto inibente dei neurolettici. Mi chiese più volte di sposarci, di partire, mi descrisse la sua fame d’amore, gli anni passati a Londra, i suoi tanti progetti, visto che lui -affermava- aveva vinto alla Sisal e aspettava i soldi della schedina per andare in crociera e comprare casa. Raccontava che la schedina purtroppo gliel’avevano rubata, ogni tanto chiedeva se sarebbe morto, eppure la mattina si alzava sempre dicendo “Ho vinto! Semu truoppu forti!”, e noi lì a dirglielo che era vero… e lo era sul serio. Un paio di volte mi spiegò di essere l’inventore del palazzo delle nuvole, un grattacielo rosa, modernissimo, bellissimo. E aspettava sempre qualcosa: la sorella, la schedina, l’amore, la guarigione, l’ora di pranzo e della prossima sigaretta.

Vera
Un armadio: alto, massiccio, di legno massello e a tre ante; eppure dietro quella faccia da camionista senza denti e con grosse sopracciglia grigionere c’era una donnina timida dalla voce flebile, dolciastra, che disegnava, scriveva diari e parlava dell’amore imbarazzandosi nonostante i sessant’anni.
Quando era sola, Vera si intratteneva sognante col principe azzurro; parlava un sacco con quel suo uomo, tante volte avrei voluto chiederle cosa gli dicesse, ma se la coglievi sul fatto aveva quel po’ di pudore che le faceva dire semplicemente “no, niente…”.
Una volta mi disse che ero un angelo e se per favore potevo allargarle le scarpe col pensiero perché erano strette e le facevano un po’ male. Io ho sorriso e le ho spiegato che non potevo, poi l’ho portata in giro per negozi a guardare vestiti; la gente la cacciava e io mi incazzavo, lei no.
Quel dolce donnone aveva paura del mare, così quando andavamo a Mondello doveva stringere la mia mano per entrare in acqua. La prima volta, appena dentro iniziò a lavarsi, affermando che l’acqua del mare guariva, che poteva toglierle i grossi nei dal viso e tutto ciò che non andava; dovetti impedirle di togliersi il costume e ci rimase veramente male. Perdonava in fretta però, lei.

Guicci (o il signor Guicciardini)
“Pappagalli! Tutti pappagalli, mangiano alla stessa ora, non possiamo fumare le sigarette, dentro, fuori solo quando dicono loro, c’è la gabbia. [silenzio.] Datemi le mie sigarette!”
Guicci adorava le sue sigarette ed era un grande stronzo a ora di ottenerle, poteva anche spintonarti o peggio; assurdo da parte sua, omino dalle labbra gonfie e lisce da vecchietto, pochi capelli bianchi, bradipeggiante e obeso con tanto di dita a salsicciotto ingiallite dal tabacco, ma sempre in grado di reggere un caffè e una diana blu, da fumare rigorosamente fino al mozzicone.
Per il suo compleanno gli organizzammo una festa, ma di fronte alla torta iniziò a parlare arrabbiatissimo di certi stupidi pappagalli imprigionati, ed era un modo per dire di quanto si sentisse triste e solo.
Un giorno, al bar in cui lo portavamo per renderlo un po’ felice mi parlò di lupi che si uccidono, di dottori che avevano i denti affilati e di orologi, ancora di lupi bellissimi e della loro morte, di un bar dove andava sempre da giovane, per poi tornare di nuovo ai lupi. Raccontava sempre le sue storie con un pensiero affastellato, che si inerpicava sconclusionato tra personaggi frutto di fusioni bizzarre e perfettamente sciolte dentro il suo caffè+schiumetta preferito.

Rosa & David
Quando aveva una crisi psicotica, Rosa si credeva una giapponese, si truccava gli occhi a mandorla con forti ombretti rosa, iniziava a parlare strana e ad infilarsi nei negozi “made in China” di viale delle Alpi chiamando “cugini” i venditori e cercando di fraternizzare con loro.
David era morbosamente dipendente dal padre, un giorno disse che se chiudevano la casa famiglia sarebbe tornato volentieri in carcere, perché gli portavano “a pasta chi sarde! Booona!”, però -diceva- lì gliela volevano tagliare la spada, e a quel ricordo si perdeva.
Rosa e David si erano innamorati per la prima volta a Villa Stagno, ma poi lui era stato trasferito e l’aveva lasciata; lei aveva sofferto, ma si era messa il cuore in pace. Vedi caso, anni dopo se lo era ritrovato in casa famiglia ed erano tornati ad essere due fidanzatini adolescenzialmente speranzosi che non si potevano baciare nel cortile di casa perché quelli del balcone di sopra si indignavano alla vista di due schizofrenici innamorati, che scandalo! Allora una volta al mese prendevano i risparmi della pensione d’invalidità per affittare una camera d’albergo e andare a fare “le loro cose“. Tornavano la mattina dopo, lei rossa, lui allegro, un po’ come tutte le coppie clandestine di trent’anni fa.

Cinque schizofrenici, storie assurde di manicomi, di latrine dentro le stanze, di abbandoni, di madri più malate di loro e di padri morti, di genitori fuggiti in Germania perché incapaci di accudire un bambino così “fuori“. Casi umani dagli occhi infantili e dai denti mancanti, che a prima vista sono i loro tratti comuni. Poi li guardi e vedi che non può esserci tra loro niente di più comune di una malattia così totale, così avvolgente da arrestare la vita, da invilupparla in un bozzolo in stand-by per siempre-toujours-always, da ammanettarla ad un mondo senza tempo in cui non sai come e perché scorre il giorno, come e quando attaccare uno scaldabagno, come si usa un preservativo, perché lavarsi e come non incendiare la cucina; di norma, il giorno dopo una lezioncina di queste, la spazzatura prendeva fuoco: non c’erano garanzie che avrebbero ricordato.

Ho conosciuto solo una delle tante case famiglia che cercano di offrire qualcosa a queste persone, che tentano di integrarle nel territorio, di non abbandonarle, di valorizzarne le capacità non ancora smangiucchiate dalla malattia, di riabilitarle insegnando loro a prendersi cura di sé; una delle tante che il Comune e la Provincia palermitana hanno portato al fallimento nel 2008, dimenticando che “schizofrenia” non significa “nocciolina”, ma alterazioni psico-fisiche croniche e ingravescenti, disgregazione irreversibile della personalità e del senso della realtà interiore ed esteriore, nonché necessità di assistenza sine die.

Per parte mia, in viale delle Alpi 113 ho trovato occhi buoni, psicofarmaci usati come acqua santa, deragliamenti mentali, deliri, allucinazioni, insalate di parole, esseri umani che avrebbero voluto continuare a vivere e della cui esistenza chiunque si dimenticava; perché ancora la gente crede che i pazzi siano solo i cappellai matti dei film.

4 thoughts on “Quando un matto mi chiese di diventare la sua ragazza

  1. Mi hai emozionata. Credo sia il tuo articolo più bello. Forse perchè è qualcosa che senti davvero. Forse perchè hai trovato le parole esatte per comunicarci questa cosa, per farcela vedere coi tuoi occhi.

  2. complimenti donnina, è davvero un articolo stupendo. con parole semplici sei riuscita a trasmettere quello che, ancora oggi, in pochi capiscono.

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