Cosa ti piace dell’India? La prima volta

Foto e testo di Alessia Ingrasciotta

Bambina lava degli utensili da cucina su una delle molte strade ancora sterrate di Varanasi.

La prima volta che misi piede in India non ero preparata. Sapevo di andare in un Paese in via di sviluppo, ma non credevo che lo scontro con la povertà sarebbe arrivato in così poco tempo.
Era marzo e, atterrata a Delhi, fui subito travolta da un’aria calda. Dall’aereo in fase di atterraggio avevo potuto intravedere strade ampie e alberate e grattacieli altissimi e all’uscita dall’aeroporto mi aspettavo esattamente questo: sole e modernità. Convinta che solo spostandomi dalla metropoli avrei fatto i conti con una realtà meno florida.
La dura verità invece si materializzò pochi minuti dopo sotto forma di bambini di cinque-sei anni che, vestiti di stracci, picchiavano al finestrino del mio taxi fermo a un semaforo chiedendo denaro.
Ogni semaforo per i mendicanti era l’occasione di racimolare qualcosa, per me un momento di triste realizzazione di una verità che ignoravo.
Scoprii in seguito, leggendo i racconti di Uday Prakash, uno scrittore indiano contemporaneo, che questa gente è considerata praticamente inesistente.
Chiamati “dalit”, in Italia conosciuti come “intoccabili”, gli appartenenti a questa fetta di popolazione costituiscono una grande parte della società indiana. Spesso si tratta di persone senza fissa dimora, barboni, lebbrosi, storpi o ciechi. I più fortunati fanno lavori umili e sottopagati. Vivono nella periferia della città occupando edifici abbandonati e in rovina, in baracche costruite con materiali di scarto oppure sotto i ponti o ancora vicino ai canali di scolo delle fognature. Si svegliano all’alba per vagare nelle strade della città vera e propria principalmente per chiedere l’elemosina. Tempo fa il governo concedeva a queste persone dei buoni statali che permettevano di avere gratuitamente un pasto al giorno ma adesso, a quanto pare, non è più così.

È come se questa gente non esistesse. E non soltanto in senso metaforico: non esistono documenti, registrazioni all’anagrafe, nemmeno un certificato di nascita o tanto meno di morte, nulla!
Eppure questa gente c’è. Ha un nome, un passato, una storia. Ma nessuno lo sa, nessuno chiede, tutti ignorano.
E da viaggiatore straniero e di passaggio non si sa cos’altro fare. E immancabilmente una sensazione d’impotenza trafigge l’anima.

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