L’arrangio del poeta

di Andrea Giardina

Oggi sento di non farcela. Quei nomi e quei corpi e quei luoghi… quei personaggi, quelle storie e quelle idee, sono cose che oggi non sento mie. Sarà la rabbia, sarà la stanchezza (si dorme male talvolta, a sognare ombre e grida che non affiorano alla superficie del suono), sarà che non l’amo più da qualche tempo, e che mi resta addosso come un sorriso incerto, quando cerco di rintracciare un istante in cui ci siamo realmente voluti. Non lo so: oggi sento di non poter scrivere. E qui credo già di aver compiuto un grande tradimento. Non tanto alla poesia, alla letteratura, a tutte quelle belle, potenti parole di cui mi riempio la bocca quando mi prende bene, e penso che il mio dolore possa cambiare qualcosa. Non tanto alle persone che ho amato, e che sento di non far vivere più come prima nelle pagine che scrivo. No, tradisco me stesso, la mia vita, quella piccola rosa che pulsa d’una luce e d’un profumo, che chiedono solo di trovar posto nel mondo di fuori. Prima, però, andrebbe accolta nel palmo delle mie mani, e mostrata, tra le dita un poco dischiuse, a qualcuno.

La poesia, i versi, di qualunque cosa siano fatti, sono di chi se li sente dentro, non solo di chi li scrive. E ci vorrebbe, sì, almeno un verso per ogni alba o tramonto, per non dire perduta una giornata di risa e lacrime, per sopravvivere a questa vita, prima ancora che pensare alla possibilità dell’eterno. Me ne sto qui seduto, allora: nel petto vibra una corda che rende il mio respiro pesante. Non grandezza, ma semplicità: rimbocchiamoci le maniche, dunque, e vediamo di quale forma tingere oggi il dolore, quale amore pescare in fondo alle strade della mia città o della mia memoria.

C’era una ragazza – non le ho mai parlato, non l’ho mai fermata, se non irrimediabilmente nel mio ricordo – che vestiva una maglietta a righe orizzontali bianche e nere, la incrociai vicino l’università qualche tempo fa. C’è che l’università non ha la bellezza della piazza con il teatro, le scale che salgono, fiere dei passi delle milioni di persone che le hanno calpestate nel corso degli anni. E sento dentro come della polvere, potrebbe essersela smarrita dietro una qualche stella, che tinge il cielo che non vedo d’una bugia dimenticata, e della malinconia delle luci incerte nelle case degli altri – ha il sapore di un amore che sarebbe possibile, se solo osassi toccare tutte quelle cose che mi sono tanto vicine _ e invece le perdo.

Non fa nulla, no, non oggi, che i miei sogni sono resi come artificiali dall’assenza d’un senso. Andrà meglio domani, sì, domani, quando tornerò a sentire sotto le dita il futuro, o semplicemente la possibilità d’essere me stesso, al di là delle stelle. E c’è che sento nel petto ancora quella corda, tesa, come se potesse spezzarsi, e devo stare attento a pizzicarla con cura, perché potrei restare con dei versi incompiuti, e non mi piace lasciare le mie giornate sospese a metà – troppe ce ne sono state, e voglio vivere come meglio posso quel che dentro m’esplode, con tanta violenza, che quasi mi sfugge. Le mie dita scorrono veloci lungo il ricordo di quella passante, lungo la forma di quel teatro, sentono l’attrito dei pianeti e degli astri, e aggiungono, come mosse da una forza a me estranea, il sentimento d’un suono – ecco che si delinea nella mia mente una cadenza, e scivolano già le prime parole sulla pagina – non so dove andranno, né se faranno mai ritorno.

Non è arte, no, non è vita, non ancora, ma c’è la memoria, c’è un luogo che – come un addio – sento mio, soltanto mio, ed una tenue commozione – tenue, assai vaga, sì – che potrebbe tradursi nell’eco d’un pianto… vado dunque aprendo e chiudendo le dita sulla mia piccola rosa, sento questi elementi combinarsi tra loro, ed ecco che anche oggi ce l’ho fatta: ricomincia il canto.

One thought on “L’arrangio del poeta

  1. Sono i personaggi che gridano aiuto. Molti, moltissimi, si ritrovano in strade senza uscita, tracciati da scrittori in erba; liberati alla stregua dei draghi da buoni editor, come le principesse dei castelli. Quando cominciano a camminare, e poi a correre, tracciando piccole impronte sui fogli bianchi, non sono che bambini nati da qualcosa che ci appartiene e che lasciamo al mondo per accrescere il nostro ego o forse per raccontare tutto di noi; piccoli Cyrano de Bergerac, nascosti tra le pagine, per arrivare dove la voce si è fermata.

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