Il Pride è anche mio

Non faccio parte della comunità LGBTQIA+. Eppure, ogni anno, quando arriva giugno e le città si colorano, sento che quel colore mi riguarda. Non perché io voglia appropriarmi di una battaglia che non è mia, ma perché vivo in una società che è ancora profondamente ingiusta. E le ingiustizie, quando ci si gira dall’altra parte, non fanno altro che moltiplicarsi.

Sostenere il Pride non è una questione di moda o di “tolleranza”. È una scelta politica, anche se non appartengo al collettivo. È un posizionamento necessario, soprattutto ora che la parola “ideologia” viene usata come insulto, e che i diritti delle persone LGBTQIA+ sono ancora considerati un “tema divisivo”.

Che ve lo dico a fare, sono femminista!

Molti si chiedono ancora “ma a cosa serve il Pride, oggi?”. Lo chiedono come se vivessimo già in una società equa, pacifica, inclusiva. Come se non esistessero ancora aggressioni omofobe, insulti quotidiani, bullismo nelle scuole, terapie di conversione, bambini che non possono chiamare “genitore” la persona che li cresce, perché quella persona non ha lo status legale per farlo.

Il Pride esiste perché l’orgoglio non è scontato. Perché ancora oggi c’è chi si vergogna, chi nasconde, chi viene cacciato da casa, chi viene picchiato. Perché il privilegio di essere accettati non è universale.

Ricordo quando, dopo l’Erasmus, un amico mi disse che finalmente in Spagna aveva trovato un posto dove essere sé stesso: le discriminazioni per chi ama, gli insulti o aggressioni erano quasi inesistenti (anche se presenti a volte in maniera limitata). Questa è la differenza tra vivere con un’identità dominante e viverne una che viene ancora vista come “alternativa”, “discutibile”, “eccessiva”.

Chi non ha mai avuto paura di uscire da casa pensando che il proprio aspetto o il proprio amore potessero essere “una provocazione”? Da donna mi immedesimo nella lotta e spero che chiunque possa farlo. Chi può permettersi di vivere senza paura ha il dovere di sostenere chi questa libertà non ce l’ha.

Sono femminista e per me essere femminista significa battersi per i diritti di tutte le soggettività oppresse, non solo per chi ha una vagina. Femminismo significa riconoscere che il patriarcato non colpisce solo le donne, ma tutte le identità che mettono in discussione l’ordine tradizionale delle cose: chi non è etero, chi non è cisgender, chi non rientra nei canoni della “normalità” imposta. Se combatto per la libertà delle donne di essere sé stesse, di autodeterminarsi, di vivere senza paura, allora è inevitabile che io lotti anche per la libertà delle persone LGBTQIA+. Le nostre battaglie non sono uguali, ma sono sorelle. Si intrecciano, si rafforzano, si difendono a vicenda.

C’è una frase che mi irrita più di tutte: “non ho nulla contro, ma non devono ostentare”.
Come se l’espressione della propria identità fosse un fastidio da contenere. Come se la visibilità fosse una minaccia. Chi dice “non devono esagerare” in fondo sta dicendo: “fate quello che volete, ma fatelo lontano da me”. Sta chiedendo silenzio, invisibilità, adattamento. Ma l’adattamento, quando non è scelto, è solo sottomissione.

Perché il Pride è anche mio:

Non sarò mai la protagonista di quella lotta. Ma posso essere un’alleata. Posso esserci, ascoltare, imparare, difendere. Posso usare la mia voce dove altre voci vengono zittite.
Sostenere il Pride non significa parlare al posto di, ma insieme a. Significa credere che una società più giusta per alcuni è, inevitabilmente, una società più libera per tuttə.

Sul balcone tutto l’anno ho appesa una bandiera arcobaleno. Non lo faccio per sentirmi buona e nemmeno perché faccio parte della comunità. Quella bandiera per me è un messaggio che dice “questa casa è uno spazio sicuro”.

Il mondo in cui voglio vivere non è ancora qui, ma attraverso le lotte ci si avvicina, un passo alla volta, anche grazie a questi colori.

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